DECORAZIONE ABSIDALE - mosaico chiesa dei Santi Giovanni Battista e Gerolamo Emiliani in Magenta
NASCITA DELLA VERGINE - olio su tela
LA PIA UNIONE DELLA SACRA FAMIGLIA - affresco
SANT’AGNESE DEPOSTA NELLA TOMBA - gesso dipinto
SAN CARLO IN GLORIA - olio su tela
Autore ignoto – XVII sec. – olio su tela
Basilica di San Martino, Magenta
La figura e le scene della vita di san Carlo Borromeo sono tra i temi iconografici più diffusi e tipici della cultura lombarda del Seicento. Questo quadro, conservato nella sacrestia della basilica, era già presente nella vecchia Prepositurale come pala d’altare in una Cappella laterale. L’immagine del santo assunto in gloria è caratterizzata da un’enfasi tipica delle opere sacre di quel periodo condizionate ancora dalla Controriforma.La rappresentazione della figura vista dal basso, trionfante tra le nubi e con lo sguardo rivolto verso l’alto, ne esalta ancora di più la grandiosità. SanCarlo è raffigurato con i paramenti liturgici da vescovo: la mitra, la pianeta, la dalmatica e il pallio, ornamento che spetta solo al Papa e ai vescovi metropoliti. Nella parte bassa, coperta dal camice bianco, si intravede anche la veste rossa cardinalizia. Le mani sono coperte da particolari guanti bianchi chiamati chiroteche. La mano destra è rivolta verso di noi in segno di protezione mentre la sinistra impugna saldamente il pastorale, altro elemento caratteristico del suo essere vescovo, che termina con un vistoso ricciolo barocco. La curiosità di questo quadro è che si tratta della copia di un’opera di Giovan Battista Crespi, detto il Cerano, conservata presso la sacrestia aquilonare (settentrionale) del Duomo di Milano.L’originale si differenzia solamente nella forma che è ovale, tutto il resto è identico: stessa inquadratura, stessa postura del santo, stessi paramenti e stessa collocazione. Il santo compatrono della Diocesi contribuisce così ad accentuare il legame tra la nostra basilica e la chiesa cattedrale.
Alcide Davide Campestrini – 1911 – olio su tela
Basilica di San Martino in Magenta
L’altare dedicato al santo di Assisi si trova poco prima dell’ingresso della sacrestia. L’opera, non presente nel progetto iniziale del nuovo Tempio, fu realizzata nel 1911per volontà della Congregazione dei TerziariFrancescani e del parroco Bernareggi, che accolse la richiesta.In archivio sono conservati i registri dellaCongregazione, attiva a Magenta fin dai primi anni Ottanta del XIX secolo, dove sono annotate le spese e le indicazioni date al costruttore relative all’esecuzione e alla scelta dei marmi da utilizzare. La realizzazione della pala fu affidata al pittore Alcide Davide Campestrini (Trento1863 - Milano 1940), come testimoniano la firma e la data chiaramente leggibili in basso a sinistra.Il pittore, originario di Trento, si trasferì giovanissimo a Milano per sfuggire agli obblighi militari dell’esercito austriaco e inseguire il sogno di studiare presso l’Accademia delle Belle Arti di Brera.Con piccoli lavori e l’aiuto di chi credeva nelle sue capacità, riuscì a pagarsi la formazione in Accademia, a diventare successivamente docente e ad aprire un suo s tudio d’arte sempre a Milano.Il quadro presente in basilica, bisognoso di un restauro, risulta attualmente poco visibile e annerito dal tempo. Solo l’illuminazione a luce radente, come si vede nella foto, riesce a mettere in risalto l’immagine e a mostrarci i bellissimi colori originali.Francesco è rappresentato con l’iconografia classica: saio marrone con cappuccio, cordone con i tre nodi in vita, sandali e barba incolta. Sono visibili anche le stimmate alle mani. Come sfondo si intravede un paesaggio roccioso con una chiesa in lontananza.Un fascio di luce divina, visibile in alto a destra, rapisce lo sguardo del santo, raffigurato inginocchiato e con le braccia aperte pronte ad abbracciare qualcosa più grande di lui
Autore ignoto - fine XIX / inizio XX sec - cera modellata e seta
Chiesa di San Rocco in Magenta
La Madonna Bambina originaria che ha ispirato questo tipo di devozione fu realizzata da suor Isabella Chiara Fornari di Todi. Tra il 1720 e il 1730 la suora francescana realizzò statue della Vergine neonata con la testa modellata in cera e coperta da una cuffietta. Il corpo, realizzato in stoppa avvolta su di un’anima in legno, era appena abbozzato e fasciato stretto, come si usava al tempo, con un candido tessuto in pizzo solitamente arricchito con catenine e pietre preziose. L’opera veniva completata con una culla in metallo o legno dove si adagiava la statua.
Le statue più piccole erano commissionate per il culto privato da nobili famiglie, quelle più grandi (fino a 80-90cm) erano destinate a istituti religiosi, conventi e monasteri.Proprio una di quelle a grandezza naturale giunse in quegli anni a Milano in dono a un sacerdote e, dopo vari passaggi di proprietà tra vari ordini religiosi che venivano via via soppressi, venne donata alle “Suore di Carità”,che fin dal 1842 prestavano servizio in un ospedale della città.Da quel momento divennero note anche come “Suore di Maria Bambina” e tutt’ora, nel Santuario di via Santa Sofia, sono le custodi di questo simulacro. La devozione mariana era già ben radicata nella Chiesa ambrosiana, basti pensare che il Duomo di Milano consacrato da san Carlo nel 1577 fu dedicato proprio a Maria Nascente.Si deve tuttavia a queste suore la diffusione “popolare” del culto diMaria Bambina, accresciuto ulteriormente dopo il primo episodio miracoloso avvenuto nel 1884 proprio nel loro istituto.Dalla fine del XIX secolo quindi molte chiese lombarde, ma non solo, commissionarono riproduzioni della statua per la devozione locale.
A Magenta, oltre che nella chiesa di San Rocco, troviamo un’altra copia leggermente più piccola nella chiesa dei SS. Carlo eLuigi a Ponte Vecchio.Quella custodita in San Rocco, situata sotto l’altare della Pietà, è a grandezza naturale e ha ancora la testa realizzata in cera (quelle più recenti sono in gesso o plastica) con gli occhi in vetro. Le fasce e la cuffietta sono in seta bianca e pizzo, la “cüna” è in legno intagliato e dorato.Fino alla metà del secolo scorso era tradizione regalare una piccola riproduzione di Maria Bambina alle giovani spose come buon auspicio di fertilità e protezione per il parto, per questo motivo la si teneva sul comò della camera da letto protetta dalla caratteristica campana in vetro
Autore ignoto - fine XVII / inizio XVIII sec. - stucco modellato e dipinto
Santuario di Santa Maria Assunta in Magenta
Questa Congregazione, dell’ordine di san Benedetto, fu fondata a metà del XIII secolo dal monaco ed eremita abruzzese Pietro Angelerio del Morrone ed era detta dei “Fratelli di Santo Spirito”. Lo stemma in origine era una semplice croce latina con accollata la lettera S (probabile riferimento a Santo Spirito) di colore nero su sfondo bianco, colori questi che richiamavano la veste e la cocolla indossate dai monaci.
Il 5 luglio del 1294 Pietro venne eletto Papa con il nome di Celestino V e da questo momento i monaci dell’Ordine presero il nome di “Celestini”. Negli anni la Congregazione si espanse rapidamente, dapprima nel sud della penisola per poi diffondersi anche al nord e in Francia. Di pari passo anche il sopracitato stemma subì dei cambiamenti arricchendosi di particolari, primo su tutti un monte all’italiana con tre cime posto sotto la croce, probabile riferimento ai monti Morrone e Maiella tanto cari al Papa eremita. Sono poi stati aggiunti ai lati della croce due gigli di Francia su fondo azzurro, in ricordo della particolare protezione verso i Celestini da parte dei sovrani angioini di Napoli e di quelli francesi.
La lettera S talvolta assunse la forma di un serpente, in alcuni casi furono aggiunti elementi riguardanti la storia del territorio e, soprattutto negli ultimi secoli, gli stemmi vennero timbrati nella parte superiore con ornamenti che richiamavano i protettori dell’Ordine o dei vari monasteri: corona (come nel nostro caso) o elmo se si trattava di un nobile e tiara o galero con nappe se era un ecclesiastico. Nel XIV secolo anche a Magenta si instaurò un monastero dei Celestini di cui il Santuario dell’Assunta faceva parte. L’edificio subì nei secoli vari rimaneggiamenti e si pensa che lo stemma posto in alto sull’arco di ingresso della cappella “dei Celestini”, risalga all’epoca del rifacimento di detta cappella voluto dai monaci stessi. Questo stemma sembra avere tutte le caratteristiche esposte, anche se a guardarlo bene colpisce il fatto che ciò che si trova attorno alla croce non è una semplice S.
Finora è stato interpretato come un serpente ma l’ipotesi è smentita per via della coda biforcuta e di un paio di ali nella parte inferiore. Grazie al libro “Vita di San Pietro del Morrone Papa” stampato nel 1664, scritto da padre don Vincenzo Spinelli, abate generale dei Celestini, possiamo affermare che si tratta di un drago (simbolo del demonio e del peccato). L’autore, narrando uno dei tanti episodi di vita dell’eremita sui monti nei pressi di Sulmona dove non mancarono difficoltà e tentazioni, scrive testualmente “Quivi col santo segno della Croce, discacciò terribilissimo Drago, che la vita de’ Viandanti insidiava; dal cui miracoloso avvenimento trae origine l’arme della Religione Celestina, formata in un Drago, che poggiando l’abbassato capo sopra tre monti, involto si fa vedere in un Tronco di Croce. A quest’arme di ambo i lati sono posti due gigli, che la Corona di Francia donò al Sacro Ordine…”.
A questo episodio dovrebbe quindi riferirsi anche uno degli affreschi che si trova all’interno della cappella. Dopo varie interpretazioni, che hanno portato anche a catalogazioni errate, possiamo dire con certezza che lo stemma dell’Assunta raffigura il simbolo dell’Ordine storico dei Celestini. La decorazione è completata da altri particolari posti al di fuori dello scudo sagomato, come la croce trilobata (richiamo a san Benedetto dalla cui Regola ha preso origine la Congregazione) e il cartiglio nella parte bassa con la scritta -Altare privilegiato in perpetuo-. Per la posizione in cui si trova, ma soprattutto per quello che rappresenta, questo stemma durante i lavori è stato una delle prime decorazioni ad essere restaurata. Tributo a quei monaci che hanno lasciato una traccia indelebile tra Magenta e Ponte Vecchio e che dopo secoli fanno ancora parlare di sé.
Paolo Camillo Landriani (attribuito)Inizio XVII sec. – olio su tela
Casa parrocchiale di Magenta
Questa grande tela, che oggi fa parte della quadreria della casa parrocchiale, si poteva ammirare nella vecchia Prepositurale di San Martino. Era infatti la pala di uno degli altari laterali dedicato proprio all’Annunciazione. L’opera è attribuita a Paolo Camillo Landriani (ca.1562-1618) e alla sua bottega. Landriani, soprannominato “il Duchino”, è uno degli artisti di riferimento del Barocco lombardo, attivo soprattutto a Milano e dintorni. Suoi sono gran parte dei “Quadroni di San Carlo” esposti in Duomo.
Secondo alcune ricerche (Il testamento di Paolo Camillo Landriani– E. Montinari) questa Annunciazione, destinata a Magenta, sarebbe l’ultimo lavoro dall’artista. L’opera, che al momento della morte del pittore si trovava incompiuta nel suo studio, fu portata a termine da un suo collaboratore poiché sulla tela aveva lasciato scritto “Anuntiatada fenire”.
L’arte barocca ha come caratteristiche l’esuberanza, la teatralità e il desiderio di stupire lo spettatore, requisiti che ritroviamo anche in questo quadro. L’Arcangelo Gabriele irrompe nella scena squarciandole nuvole, con le ali ancora spiegate e l’abito mosso dall’aria come i lunghi capelli. Indossa eleganti calzari con tanto di fregio in metallo, presentandosi come condottiero della schiera celeste che si ferma appena sopra di lui a contemplare l’avvenimento. Si pone davanti a Maria con una posa plastica e l’indice della mano destra alzato a indicare la provenienza del messaggio. Nella mano sinistra tiene un vistoso ramo di giglio a tre teste. Il giglio bianco è il simbolo della purezza verginale di Maria. Nello squarcio delle nuvole appare una colomba bianca, simbolo dello Spirito Santo, che sprigiona un fascio di luce diretto verso Maria. La potenza di questa luce è accentuata da cerchi concentrici con angioletti “scolpiti” nelle nuvole.
Maria viene sorpresa dall’Angelo mentre sta leggendo un piccolo libro di preghiere posato su di un inginocchiatoio intagliato in stile Barocco. In questo istante tutto si ferma e la scena concitata vista finora lascia spazio al silenzio e ai gesti. Maria ha lo sguardo abbassato e tiene la mano destra sul petto in segno di sottomissione alla volontà di Dio, mentre il palmo della mano sinistra è rivolto verso l’Angelo come gesto di accettazione.
“Rallegrati” ed “Eccomi” sono le due parole che racchiudono questa scena che dà l’inizio a una grande storia.
Angelo Inganni – 1849 – olio su tela
Cappella Regina dei Martiri – Istituto Figlie della Carità Canossiane in Magenta
Il pittore Angelo Inganni (Brescia, 1807 – Gussago, 1880) è considerato uno dei più grandi vedutisti dell’Ottocento. Viene ricordato infatti per i suoi bellissimi scorci della “Vecchia Milano”, oltre a piazze e ville di Brescia e dintorni. Negli anni si è specializzato anche come ritrattista e nella pittura di genere. Ogni suo quadro è caratterizzato da intenso realismo, prospettive perfette e grande attenzione ai particolari. I soggetti di arte sacra occupano una minima parte della sua produzione, pur avendo iniziato da giovanissimo nella bottega del padre proprio come decoratore di chiese.
Questo quadro arriva a Magenta sicuramente dopo il 1884, anno della fondazione dell’Istituto. Precedentemente di proprietà dell’Istituto Canossiano di Milano, viene donato al nuovo Istituto di Magenta come decoro della Cappella. Quello che colpisce subito è la chiarezza e la definizione delle figure, tipiche dell’Inganni, unite all’utilizzo di colori sgargianti che attirano subito lo sguardo sulla scena centrale. La deposizione dalla Croce è appena avvenuta e quello che vediamo è il compianto sul Cristo Morto da parte di Maria (coronata di stelle), Giovanni e la Maddalena. Questi ultimi sembrano ormai rassegnati e impotenti per quanto successo. Maria, pur distrutta dal dolore per aver perso il Figlio, è consapevole che non può finire tutto così e rivolge lo sguardo verso l’alto, a Dio. In secondo piano si vedono la Croce, il telo sindonico e la scala utilizzata per la deposizione, dietro cui si intravedono due figure camuffate con abiti del tempo. Il primo è proprio Angelo Inganni, che era solito raffigurarsi in alcuni suoi quadri; di fianco a lui è riconoscibile il mecenate milanese Francesco Medici, grande amico dell’artista e probabile committente del quadro. Lo sguardo viene poi rapito da un vortice di putti e angioletti in mezzo alle nuvole. Fra questi c’è chi tiene tra le mani alcuni degli “Strumenti della Passione” o “Misteri”: il velo della Veronica, il martello e i chiodi utilizzati per la crocifissione, la corona di spine, il calice dell’ultima cena. Altri di questi oggetti sono raffigurati a terra nella parte inferiore del dipinto: la brocca utilizzata da Pilato per lavarsi le mani e la canna con infilzata la spugna imbevuta di aceto. Proprio sotto questo bastone l’artista ha lasciato la sua firma. Possiamo leggere infatti: Angelo Inganni fece, 1849.
Il dipinto, che nel suo insieme risulta preciso nel rappresentare l’ambientazione e la drammaticità della scena in questione, ha però un particolare che lo caratterizza: il gesto dell’angelo che si trova appena sopra Giovanni, che con una mano indica il corpo di Cristo e con l’altra rovescia un calice. Il calice raffigurato, che simboleggia quello utilizzato nell’ultima cena, riproduce però un calice da Messa ottocentesco decorato a sbalzo coevo cioè con il dipinto. Attraverso quell’angelo il pittore ci sta forse dicendo che ancora oggi (all’epoca del dipinto ma anche ai giorni nostri) beneficiamo di quel sangue versato. É quanto sperava Maria con quegli occhi rivolti al cielo. È la Pasqua che si rinnova ogni volta che si celebra l’Eucaristia.
Autore ignoto/Scuola Beato AngelicoXVII/XX sec. - legno e tempera su tavola
Chiesa San Giuseppe Lavoratore in Ponte Nuovo di Magenta
L’opera in oggetto è il risultato di modifiche avvenute negli anni. Il Cristo è una scultura originale del XVII secolo in legno policromo che la SAFFA acquistò come arredo sacro per la nuova chiesa in occasione della consacrazione (1963). La scultura era applicata a una semplice croce lineare che si trovava posta sopra il tabernacolo e l’altare ancora nella posizione preconciliare. Modifiche al presbiterio vengono attuate negli anni Ottanta, contestualmente alla donazione della proprietà della chiesa da parte della SAFFA alla Curia e la conseguente istituzione della Parrocchia di Ponte Nuovo (1983/84). Risale a quegli anni anche la croce, apparentemente antica, che vediamo oggi. La “Scuola Beato Angelico” di Milano realizza infatti una croce sagomata, che ricorda i crocifissi dipinti del XIII secolo, sulla quale viene applicata la scultura lignea originaria. Questo tipo di croce prevede: un tabellone centrale i cui scomparti riportano la caratteristica decorazione geometrica e multicolore che imita tessuti preziosi; i bracci con i terminali decorati con il tetramorfo, cioè la rappresentazione dei simboli dei quattro evangelisti: angelo, leone, toro, aquila; la cimasa con l’iscrizione “Gesù nazareno, re dei Giudei” scritta in ebraico, latino e greco, così come riporta il vangelo di Giovanni; il piedicroce, cioè l’allargamento nella parte inferiore. Quest’opera nasconde una particolarità e quella che frontalmente vuole risultare a tutti gli effetti una croce antica, nella parte posteriore è decorata con un moderno e coloratissimo dipinto che possiamo collocare come stile nel movimento pittorico della transavanguardia. Nella parte inferiore, tra strisce colorate e forme stilizzate, si può immaginare la rappresentazione del borgo/villaggio con le case, la fabbrica e la nuova chiesa. Tutto è sovrastato dall’immagine di Maria raffigurata con il volto triste, consapevole che alle sue spalle c’è il Figlio crocifisso.Tra le varie forme e simboli che la circondano si identificano chiaramente i due elementi che ha tra le mani. Nella mano destra tiene un libro dove si intravede la scritta “BIBBIA” e nella mano sinistra un tabernacolo riconoscibile dalla scritta“IXOYC”, acronimo utilizzato per indicare Gesù Cristo. Maria lascia quindi a noi del mondo “moderno” un messaggio di speranza, presentandoci le due forme in cui possiamo nuovamente incontrare suo Figlio: la Parola e il Pane Eucaristico. Dietro di lei un cielo azzurro e una distesa d’acqua si incontrano in corrispondenza delle braccia aperte del Cristo sul lato opposto. L’orizzonte simboleggia il tramite tra Dio e l’uomo e quelle braccia aperte sulla croce rappresentano quindi la nostra salvezza.
Grazioso Rusca (attribuito) - 1815 - gesso dipinto
Basilica di san Martino in Magenta
L’altare che troviamo presso la Cappella di san Giuseppe in basilica era già presente nell’antica prepositurale ed è databile al 1815. Al posto della statua del padre putativo di Gesù, che vediamo oggi, c’era però la statua della Madonna Regina della Pace (ora posta nell’altare a Lei dedicato situato nel transetto). L’intera opera fu voluta e finanziata dalla famiglia Beretta nella persona di Giuseppe, bisnonno di santa Gianna. La particolarità di questo altare è la presenza nel sottomensa di un paliotto semicircolare in lamina metallica decorata a sbalzo che nasconde una nicchia. Questa cavità per forma e fattura vuole ricordare l’arcosolio (tomba) delle catacombe romane dove fu rinvenuto il corpo della martire Agnese.
All’interno della nicchia giace infatti la statua a grandezza naturale (Agnese aveva circa 12 anni) della santa priva di vita. La scultura è attribuibile a Grazioso Rusca, lo stesso autore della statua della Madonna sopra citata. L’artista ha rappresentato la giovane martire vestita con una candida tunica, preziose calzature dorate ai piedi e con una corona di fiori a cingere la folta chioma, forse a voler affermare che con il martirio Agnese si è presentata a Cristo come una sposa. Sul collo è ben visibile il profondo taglio che le ha causato la morte. Accanto a lei un ramo di palma, simbolo del martirio, il gladio che ha inferto il colpo fatale e un piccolo vaso che potrebbe rappresentare l’ampolla dove si raccoglieva il sangue versato dai martiri e che si lasciava nei pressi della tomba.
L’agnello, principale attributo iconografico di sant’Agnese, in questo caso è raffigurato al centro del paliotto. Quest’opera, quasi a voler preservare la sacralità della sepoltura, viene esposta alla devozione un solo giorno all’anno. Nel giorno della festa liturgica, 21 gennaio, il paliotto viene rimosso per rendere visibile la statua. La devozione dei magentini verso sant’Agnese è testimoniata nella nostra basilica anche dal penultimo cupolino della navata laterale destra, dove viene raffigurato san Martino che dialoga con la Madonna, sant’Agnese e santa Tecla. Un’ulteriore raffigurazione si trova nel tondo dipinto sulla volta del transetto di sinistra e in uno dei medaglioni in marmo presenti nella parte bassa della facciata.Il medaglione venne offerto dal gruppo delle “Figlie di Maria”, a testimonianza del fatto che a questa santa, come tradizione, era legata la pastorale educativa della gioventù magentina.
Figurinai lucchesi - fine XIX sec. - gesso dipinto
Basilica di san Martino in Magenta
Con il termine Presepe, dal latino praesaepe (mangiatoia), si indica la rappresentazione della nascita di Gesù.Questa bella tradizione ha inizio grazie a san Francesco che, di ritorno da un viaggio in Palestina, sente il desiderio di rievocare questo evento cercando di ricostruire la scena dal vivo.
La notte del 24 dicembre 1223 a Greccio, paesino che gli ricorda il paesaggio di Betlemme, Francesco, diacono, serve la Messa celebrata alla presenza di pastori, gente comune e nobili. L’evento avviene all’interno di una grotta dove fa portare una mangiatoia, un bue e un asino. Nei secoli successivi sono i maggiori artisti a tramandare e arricchire questa iconografia. A partire dal XV secolo, con l’utilizzo di statuine e riproduzioni di elementi naturali, inizia a diffondersi la tradizione di allestire la scena della Natività durante il periodo natalizio, inizialmente solo nelle chiese e successivamente nei palazzi nobiliari e nelle semplici abitazioni.
Nel XVI secolo la tradizione vuole che nel Regno di Napoli nasca il presepe“moderno” così come lo conosciamo oggi, con mestieri e scene di vita quotidiana a fare da contorno alla Natività. Le statue che presentiamo sono le più antiche che abbiamo nelle nostre chiese e vengono solitamente utilizzate per l’allestimento del grande presepe in basilica. L’origine e la datazione ci vengono dal “Museo della figurina in gesso e dell’emigrazione” di Coreglia Antelminelli (LU), dove è conservata una serie completa di statue identiche alle nostre.
La storia degli stucchinari lucchesi, poi definiti figurinai, ha origine fin dal tardo XVII secolo, quando gli artigiani locali si specializzano nella realizzazione di “figurine” di immagini sacre, santi, personaggi storici o di fantasia.Il termine stucchinari deriva dal materiale utilizzato che era inizialmente lo stucco, sostituito poi dal gesso molto più economico, modellabile e facilmente decorabile. Le statue si ottenevano mediante colatura del gesso in appositi stampi realizzati dagli artigiani stessi, seguiva poi una fase di asciugatura, rifinitura e decorazione.
I soggetti venivano realizzati in diverse grandezze e per statuine come le nostre, di grandi dimensioni (le figure in piedi misurano circa 70 cm), all’interno della colata ingesso venivano aggiunti pezzi di juta come rinforzo.La fortuna di gran parte di questi artigiani, provenienti da tutta la Lucchesia, fu la decisione di dare origine al fenomeno dell’emigrazione trasferendosi in altre zone d’Italia e del mondo, portando con sé i loro prodotti e l’arte di realizzarli.
A 800 anni esatti da quella prima rappresentazione l’invito è quello di continuare o di riscoprire questa importante tradizione e di realizzare nelle nostre case un presepe.Che sia in stile popolare o palestinese, artistico e ricercato o semplice con la sola scena principale, il presepe è da sempre il modo più autentico e poetico di manifestare il nostro desiderio di accogliere Gesù, che si è fatto bambino per essere vicino a noi.
Pietro Zucchi – 1871, lamiera sagomata e sbalzata
Basilica di san Martino in Magenta
Questa statua fa parte di una coppia che fu commissionata dal parroco don Carlo Giardini e dalla fabbriceria all’artista milanese Zucchi. Insieme alla statua del santo Patrono fu fatta realizzare anche quella raffigurante santa Crescenzia, la “particolare Protettrice” dei magentini. Le statue, che oggi troviamo esposte nella seconda sacrestia della basilica, servivano ad abbellire la vecchia Prepositurale e furono posizionate all’interno di due grandi nicchie poste probabilmente all’ingresso della chiesa o ai lati del presbiterio. Non abbiamo documentazione in merito alla collocazione originale. In archivio, però, è conservata la ricca raccolta delle lettere intercorse tra le due parti dove si specificano dimensioni, materiali da utilizzare, colore, condizioni per il trasporto e la messa in opera. Le statue furono realizzate con lamiere di rame, zinco e ottone. Come colore di finitura l’artista propose il bianco (per imitare il marmo) o il verde-rame (a imitazione del bronzo): prevalse quest’ultimo. Oggetto di discussione fu anche il compenso: i committenti da una parte che chiedevano di abbassare e l’artista dall’altra che giustificava il lavoro e il costo dei materiali. Più volte venne espressamente richiesto che il retro delle figure, non visibile nella nicchia, fosse lasciato aperto e non rifinito. Questo comportava un notevole risparmio di materiale e di manodopera con conseguente ridimensionamento del prezzo. Mentre per santa Crescenzia non ci furono dubbi nel richiederla abbigliata “alla foggia romana dei primi secoli della Chiesa”, per san Martino inizialmente era prevista la realizzazione con “abito pontificale” da vescovo di cui conserviamo il bozzetto. Si decise invece di raffigurarlo vestito da soldato, cioè nell’iconografia più classica del taglio del mantello. Eccolo allora rappresentato con la divisa da soldato romano, la spada sguainata nella mano destra e nella sinistra il mantello appena tagliato. L’elmo è posto ai suoi piedi, a significare il cambiamento radicale che era in atto in lui. Donando il mantello, infatti, Martino nel povero incontrò Cristo, che ritroverà di lì a poco nell’episodio che gli ha realmente cambiato la vita, il Battesimo.
Luigi Valtorta - 1901 - affresco
Basilica di San Martino in Magenta
L’affresco raffigura Papa Leone XIII presso le logge di Raffaello in Vaticano intento a mostrare a un gruppo di ecclesiastici la SacraFamiglia che appare incielo come una visione.Mentre i religiosi in preghiera guardano estasiati la sacra immagine, il pontefice ha lo sguardo rivolto verso noi spettatori e ci rende partecipi della scena. Il grande dipinto si trova nel presbiterio di fronte all’altro di pari grandezza, più celebrato e riprodotto, raffigurante san Martino nella scena del mantello. Queste due opere, commissionate da don Cesare Tragella, sono tra le prime decorazioni realizzate nel nuovoTempio, terminate nel 1901 a cantiere ancora aperto. La scena di fantasia raffigurata dovrebbe essere una citazione dell’enciclica Graves de communi re pubblicata dal pontefice il 18gennaio 1901. Il testo tratta del vero significato di “democrazia cristiana”intesa come “benefica azione cristiana a favore del popolo” e specifica che “...ad ottenere meglio l’intento servirà certo l’additare il singolar modello della Santa Famiglia Nazarena...”. Per comprendere la scelta di questo soggetto bisogna specificare che don Tragella era devotissimo del pontefice (fu accolto ben sette volte in udienza privata) e grande estimatore del suo magistero. L’enciclica in questione era infatti la terza che trattava di tematiche sociali (la prima fu la Quod Apostolici muneris e a seguire la più nota Rerum novarum) tanto care a don Cesare e che caratterizzarono la sua missione di sacerdote e di parroco. Arrivato a Magenta nel1885, Tragella si fece da subito promotore della nascita di diverse realtà sociali: la Banda Civica, la SocietàAmbrosiana, il Forno CooperativoAmbrosiano, una Cassa Rurale...La realizzazione del nuovo Tempio Prepositurale sintetizzò l’instancabile attività del parroco nei diversi campi: religioso, sociale e anche politico.Non può stupire quindi la decisione di don Tragella di aggiungere alla titolazione della nuova chiesa oltre al nome di San Martino quello di San Gioachimo (tradotto letteralmente da Joachim). Questa aggiunta, in realtà mai fatta propria dai magentini e dai sacerdoti che si sono succeduti, faceva sì riferimento al padre dellaVergine Maria ma era un implicito omaggio proprio a Leone XIII, al secolo Gioacchino Pecci. Questa scelta venne accettata dall’allora Arcivescovo card. Ferrari (contrariamente all’altra idea di Tragella di concepire il nuovo Tempio come sacrario per i caduti della Battaglia), che così consacrò il Tempio il 24 ottobre 1903.Nel frattempo il Papa era cambiato,Leone XIII morì infatti nel luglio di quell’anno, ma come abbiamo visto l’idea di don Cesare risaliva almeno a due anni prima. Negli ultimi decenni del XX secolo poi, la Curia propose la possibilità di semplificare i nomi degli edifici religiosi e si decise di mantenere un solo nome di santo titolare. Da allora la basilica viene indicata con il solo nome di San Martino Vescovo, santo a cui i magentini erano profondamente legati da secoli fin dalla vecchia Prepositurale e che non si sono forse mai accorti della progressiva sparizione del secondo nome. In occasione del 120° anniversario della dedicazione della nostra basilica ci sembrava giusto ricordare il suo ideatore nonché principale artefice della realizzazione e i suoi ideali, dei quali rimane questo affresco a perenne memoria.
Autore ignoto - metà XVII sec. - olio su tela
Chiesa dei Ss. Carlo e Luigi in Ponte Vecchio di Magenta
Questo quadro si trovava originariamente presso l’antico Oratorioesistente sul lato nord-ovest del giardino di Villa Castiglioni a Ponte Vecchio, dedicato proprio a Santa Maria Nascente.I documenti certificano la presenza di questo edificio sacro già allafine del 1500 e l’affidamento alle cure dei Padri Celestini già presenti a Magenta.L’Oratorio venne praticamente distrutto nel 1859 durante la Battaglia di Magenta e oggi a ricordarne l’esistenza c’è una piccolaedicola. L’opera è una copia (probabilmente di un allievo della bottega) di un quadro conservato a Milano al museo di Sant’Eustorgioe attribuito a Carlo Francesco Nuvolone.In primo piano troviamo la piccola Maria con tre ancelle, una diqueste la tiene in braccio e due si occupano delle brocche d’acquache serviranno per il bagno della neonata nel bacile davanti a loro.In secondo piano si intravedono sant’Anna distesa sul letto dopola fatica del parto, san Gioacchino che le si avvicina e altre duedonne che si prendono cura di lei. Una di queste nell’iconografiatradizionale porta del cibo ad Anna, in questo caso porge un vassoio con due uova, simbolo di vita e perfezione. Un particolareinteressante, che conferma la provenienza del quadro, è il piccolostemma dipinto nella parte bassa. Si tratta proprio dello stemmadei Celestini, dipinto forse come “marchio di inventario” dei beniartistici dei Padri. La particolarità di questo stemma è che differisceleggermente da quello tradizionale che troviamo anche presso ilSantuario dell’Assunta e che riporta la croce al centro con la letteraS di Spirito Santo e ai due lati i gigli.In questo caso i gigli sono sostituiti dalle lettere O. C. (forse OrdoCoelestinorum) ed è curioso il fatto che lo stesso stemma così composto lo ritroviamo ancora oggi visibile in rilievo sopra il portonedi un cortile sito in via Roma a Magenta. Simboli questi che a distanza di secoli testimoniano che per più di 400 anni (dalla metà delXIV secolo fino allo scioglimento dell’Ordine nel 1782) i Celestinisono stati presenti sul territorio e parte attiva della comunità.
Ditta Viganò (BG) - fine XIX secolo - rame sbalzato
Museo della Battaglia, Casa Giacobbe in Magenta
Nel 1885 viene nominato parroco di Magenta don Cesare Tragella. Da subito, vista la condizione della vecchia Prepositurale, don Cesare pensa a un progetto faraonico: la costruzione di una nuova chiesa più grande che, oltre a essere un Tempio religioso, sia anche un monumento patriottico che ricordi la Battaglia di Magenta e tutti i suoi caduti. Per attuare questo progetto mette in atto una strategia che ancora oggi stupisce per la modernità.Fa largo uso della stampa (non solo nazionale) e fa realizzare migliaia di cartoline scritte in francese, all’epoca considerata lingua internazionale utilizzata dai colti e dalla diplomazia, per presentare il progetto del nuovo Tempio.Per coinvolgere le tre nazioni della Battaglia (Italia, Francia e Austria) con la speranza di ricevere finanziamenti, commissionala realizzazione di sei busti: Vittorio Emanuele II,Napoleone III, FrancescoGiuseppe e relative consorti.I busti, realizzati prima ingesso e successivamente in rame sbalzato, avrebbero dovuto trovare posto all’interno della basilica.Il desiderio di don Tragella non potrà mai essere realizzato poiché i rapporti allora esistenti tra laChiesa Cattolica e lo StatoItaliano non permettevano tali convivenze.Il cardinal Ferrari minacciò di non consacrare la nuova chiesa se don Cesare avesse insistito con il suo progetto.I busti, di buona fattura e molto somiglianti ai protagonisti, risultano alla fine solo tre e non trovano dimora per molto tempo. Le vicende processuali allontanano donCesare da Magenta e per molti anni le tre opere rimangono in un deposito del Comune. Negli anni settanta ne viene rivendicatala proprietà da parte della Parrocchia di San Martino e vengono posti nella cantina della casa parrocchiale.Per trovare la loro ubicazione definitiva bisognerà aspettare il 2012 con la realizzazione del Museo della Battaglia presso“Casa Giacobbe”, dove fanno bella mostra di sé nel salone principale di ingresso.
Giovanni Corneo - 1856 - legno intagliato e dorato
Basilica di San Martino in Magenta
I resti del corpo di santa Crescenzia, esumata a Roma dalle catacombe di San Callisto, giunsero a Magenta il 7 gennaio 1817. Fu il Prevosto Giuseppe Ruscelli, per accrescere il fervore religioso dei magentini, ad avanzare la richiesta a Papa Pio VII per avere una "insigne" reliquia.
Grazie anche all'interessamento della Famiglia Lomeni, il Papa inviò una cassetta in legno contenente le ossa di questa giovane martire (da qui il nome “ragazza in crescita”) e un piccolo vaso intriso di sangue (testimonianza del suo martirio) rinvenuto davanti alla sepoltura.
Accolta subito con gioia e devozione dal popolo, santa Crescenzia da più di 200 anni è Compatrona della Città e Protettrice dei magentini.
A lei infatti ci si è rivolti per essere preservati dalle calamità, dagli eventi bellici e dalle emergenze sanitarie di questi secoli, compresa la recente pandemia. La cassetta in legno venne collocata inizialmente su altari esistenti della vecchia Prepositurale di San Martino e successivamente, all'interno della stessa, venne creata una cappella dedicata alla venerazione della santa.
Si decise quindi di ricomporre le spoglie, rivestirle con un abito ed esporle all'interno di una teca in cristallo.
Nel 1855/56 la cappella venne modificata e creato un nuovo altare.
A questo intervento risalgono sia l'urna ricoperta in foglia oro, opera di pregevole fattura dell'ebanista magentino Giovanni Corneo, sia la pala d'altare che raffigura il martirio di Crescenzia, olio su tela di Domenico Biraghi, che ancora oggi vediamo in basilica.
Verso la fine del XIX secolo, con l'avvento della costruzione del nuovo Tempio, venne modificata la parte superiore dell'urna con l'aggiunta della cimasa che diede maggiore slancio all'opera. Nel 1903 venne rifatta anche la veste e l’urna fu accolta in basilica. Il nuovo altare, progettato dall'arch. Alfonso Parrocchetti, fu realizzato in legno dipinto dall'artigiano magentino Oreste Miramonti.
Della vecchia Prepositurale sono anche i due angeli cinquecenteschi posti a decorazione ai lati dell'urna.
L'ultimo importante lavoro di restauro risale al 1998, eseguito dalla scuola Beato Angelico, che ci consegna il corpo della santa così come lo vediamo oggi e l'urna ripulita tornata al suo antico splendore. Due citazioni bibliche sono dipinte in piccolo ai lati dell'urna, a dimostrazione dell'affidamento dei magentini verso "La Santa", come viene familiarmente chiamata:
Accanto al corpo troviamo il cartiglio con la dicitura "CRESCENTIA DORMIT IN CHRISTO". Come spiega il prof. Cislaghi nel suo libro La Gran Martire Crescenzia “Non significa semplicemente che Crescenzia dorme in Cristo, ma che ella si è unita con totale fiducia a Cristo fino alla morte, condividendone la resurrezione”.
Artisti ditta Malnati Pietro e Figlio – anni ’30 del XX sec. – legno e pietre varie scolpite
Basilica di san Martino in Magenta
Con la Perdonanza di san Martino del 2016 (Anno della Santità) la porta laterale destra della facciata è stata scelta come Porta Santa, da aprirsi ogni anno a novembre per la festa del Patrono e negli Anni Giubilari straordinari come il centenario di santa Gianna.
La porta in sé non ha grandi caratteristiche: in legno, con modanature semplici e una croce al centro. Sono invece gli stipiti, formati da lesene in stile corinzio decorate con altorilievi, e l’architrave a essere interessanti.
Stipiti e architrave sono parte integrante della facciata e sono decorati in modo speculare.
Cercando di interpretare i simboli scolpiti troviamo, dal basso verso l'alto.
Per quanto riguarda l'architrave: sugli spigoli sono rappresentati due DELFINI, simbolo di Cristo, attorcigliati a un’ancora, simbolo di salvezza.
Spostandoci verso il centro troviamo una ghirlanda composta da vari frutti: MELA, LIMONE, MELAGRANA, PIGNA, UVA, SPIGHE DI GRANO...
La varietà di frutta rappresenta le quattro stagioni ma i singoli frutti hanno anche valore simbolico.
La melagrana ad esempio rappresenta la Chiesa ed è anche simbolo di Resurrezione, la pigna simboleggia l'eternità e la rinascita. Sopra questi frutti campeggia una grossa APE, rappresenta l'operosità ma è anche simbolo di Gesù e della sua clemenza.
Nella parte centrale ci sono due angioletti che sorreggono la lapide con l'iscrizione "ECCE SACERDOS MAGNUS", sopra di essa troviamo infatti la lunetta che rappresenta la consacrazione episcopale di san Martino.
Scultore ignoto lombardo - XVII sec. - gruppo scultoreo a grandezza naturale in terracotta policroma
Chiesa dei SS. Carlo e Luigi in Ponte Vecchio di Magenta
Il “Compianto sul Cristo morto” è un soggetto dell’arte sacra divenuto popolare a partire dal XIV secolo (si veda l’affresco di Giotto nella Cappella degli Scrovegni), così come quello della “Pietà”.Le due rappresentazioni, spesso confuse, si differenziano dal fatto che nella prima il corpo senza vita di Cristo, poggiato sul lenzuolo della sepoltura, giace a terra attorniato da più personaggi o sorretto da alcuni di questi; nella Pietà invece sono rappresentati solo la Madonna che tiene tra le braccia o sulle ginocchia il Figlio morto.Queste due scene non vengono esplicitamente narrate nel racconto della Passione nei Vangeli, ma derivano da un’interpretazione del tutto umana e sentimentale di ciò che può essere accaduto nello spazio di tempo intercorso tra la deposizione dalla croce e la deposizione nel sepolcro.In queste scene viene quindi rappresentato il momento in cui una madre si ritrova a dover accettare la morte del figlio, mentre amici e parenti rendono omaggio a un loro caro prima della sepoltura.Tra le varie forme d’arte che hanno trattato il tema del Compianto, un particolare interesse storico e artistico si è diffuso a partire dal XV secolo, della realizzazione della scena mediante gruppi di statue policrome a grandezza naturale.Le statue (realizzate in legno o terracotta)venivano disposte in modo da ottenere un evidente effetto teatrale e la componente cromatica rendeva ancora più realistica la scena, in grado dunque di avvicinare il fedele e renderlo partecipe.In quel periodo sono diversi gli Stati europei dove vari artisti si cimentano in questo tipo di rappresentazione ma è in Italia, nella zona tra Piemonte, Lombardia, Emilia e Veneto, che trova maggiore diffusione.Oltre a decorare altari e cappelle di numerose chiese, questa forma d’arte darà l’impulso per la nascita dei vari “Sacri Monti” di Piemonte e Lombardia.Nella rappresentazione del Compianto oltre a Cristo eMaria vengono solitamente rappresentati coloro che, come descritto nei Vangeli, sono stati testimoni delle ultime vicende di Gesù: l’apostolo Giovanni, la Maddalena, le pie donne, Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo. A questi possono essere aggiunti altri personaggi oppure i protagonisti possono essere anche meno, come nel caso dell’opera presente nella nostra chiesa dove oltre a Cristo e sua madre è presente solo un angelo.Non abbiamo molte notizie sulla provenienza di questo gruppo scultoreo. Sappiamo solo che era già presente nella vecchia chiesa della frazione (Oratorio dell’Immacolata) e che con la costruzione della nuova chiesa parrocchiale è stato trasferito dove si trova ora, insieme all’altare della Madonna che lo custodisce.È stato catalogato come opera di scuola lombarda con ascendenze emiliane.Infatti, pur avendo avuto la Lombardia una notevole fioritura di artisti in questo campo, questi non potevano prescindere dal confrontarsi con assoluti maestri della scuola emiliana: basti pensare alle opere di Niccolò dell’Arca a Bologna e Guido Mazzoni a Modena.Nella nostra opera Cristo è steso in primo piano come nella rappresentazione classica.Maria, solitamente rappresentata in una posa di disperazione o addirittura svenuta, qui è posta lateralmente dietro il Figlio e manifesta un dolore composto in una posizione di contemplazione con lo sguardo su di Lui e le mani giunte.Sempre in secondo piano ma in posizione centrale c’è un angelo, che ha lo sguardo rivolto al cielo e tra le mani tiene un lembo del telo su cui è adagiato Cristo.È proprio la presenza dell’angelo, solitamente mai raffigurato in queste scene scultoree, a rendere caratteristica l’opera e afar tornare alla mente un altro episodio e un’altra iconografia dove i protagonisti sono gli stessi:l’Annunciazione.Così come l’angelo annuncia il concepimento e la nascita di Gesù nell’Annunciazione, in questa scena, con quel gesto che sembra voler togliere il telo sindonico, preannuncia a Maria e a noi la “rinascita di Cristo” ovvero laResurrezione.
Italo Peresson - 1980 - mosaico
chiesa dei Santi Giovanni Battista e Gerolamo Emiliani in Magenta
L’artista friulano Italo Peresson (1941-2015), dopo aver frequentato una scuola per mosaicisti, si trasferì giovanissimo a Milano per lavorare come apprendista presso una rinomata bottega di cui divenne presto titolare.In oltre 40 anni di attività, Peresson ha acquisito grande fama quale maestro di arte musiva e vetraria (sue sono anche le vetrate del presbiterio).Il mosaico della nostra chiesa è statorealizzato con una tecnica mista che prevede l’utilizzo di smalti di Murano, vetro opalescente, gres porcellanato e pietre, tutti materiali inalterabili nel tempo, tanto che l’artista amava definire il mosaico “La pittura per l’eternità”.La sua realizzazione rientrava nel progetto del presbiterio pensato dall’architetto suor Michelangela Ballan. I loro due nomi li troviamo infatti incastonati come una firma nella parte finale del mosaico a destra.Ma cosa rappresenta l’opera che vediamo lungo l’abside con le sue macchie di colore?Si intuisce subito che tutto parte dal centro, in corrispondenza del Tabernacolo, per poi espandersi nelle due direzioni per tutta la lunghezza della parete.Una chiave di lettura può essere quindi che il mosaico rappresenta la Comunità Cristiana, dove al centro c’è Cristo(presente nel Tabernacolo).Per capire meglio è necessario avvicinarsi e scoprire la miriade di tessere, frammenti e tasselli presenti, rendendosi conto anche della maestosità dell’opera e della mole di lavoro: ogni tassello è diverso dall’altro per dimensione, colore e forma, tutti tagliati e martellinati a mano prima di essere posizionati.In questa chiave di lettura i tasselli rappresentano quindi noi cristiani, ognuno con le sue particolarità, le sue sfaccettature e i suoi difetti.Siamo inoltre divisi (come le macchie di colore) in gruppi, Parrocchie, Comunità e Diocesi in tutto il mondo.Se ci allontaniamo però e torniamo aguardare l’opera nel suo “insieme”, ci accorgiamo che tutte queste diversità e imperfezioni si fondono.Comprendiamo così che solo stando uniti possiamo dare vita a qualcosa di bello e armonioso. Così come può e deve essere la Chiesa.
Autore ignoto – inizio XVII sec. – olio su tela
chiesa della Sacra Famiglia in Magenta
“Non avendo la possibilità di costruire un autentico tempio, date le scarsissime possibilità finanziarie…fidandomi nella Divina Provvidenza che non abbandona mai i suoi figli, vi ho comperato una chiesa prefabbricata”, così nel 1963 il Parroco di Magenta, mons. Terrani, scriveva ai parrocchiani che abitavano al di là della ferrovia “…e la voglio dedicare alla Sacra Famiglia perché benedica e protegga le nostre famiglie cristiane”.
Scelse anche di donare simbolicamente questo quadro che venne posizionato dietro l’altare di quella che ancora oggi viene ricordata come la “chiesa di legno”.
L’opera faceva parte della quadreria della basilica, non abbiamo però documenti che attestino la sua provenienza originaria (forse la vecchia San Martino o un’altra chiesa magentina dismessa).
Dieci anni dopo venne istituita ufficialmente la Parrocchia Sacra Famiglia e a metà degli anni ‘80 si decise la costruzione di una chiesa in muratura.
La vecchia chiesetta verrà abbattuta e il quadro, non trovando adeguata collocazione nell’architettura moderna della nuova chiesa, viene esposto solamente in occasione della festa liturgica della Sacra Famiglia.
Possiamo dire con certezza che si tratta di una pregevole copia secentesca del quadro di Federico Fiori detto il Barocci, conservato nei Musei Vaticani: stesso soggetto, stesso stile, stessa impostazione della scena.
Capitava spesso che quando un’opera aveva successo e piaceva per bellezza e innovazione, venisse replicata dai pittori della bottega dell’autore o da altri artisti contemporanei.
L’opera a prima vista può sembrare semplicemente la rappresentazione di un momento di tranquillità e serenità della Sacra Famiglia durante la faticosa fuga in Egitto, la prima cosa che balza all’occhio è infatti il tenero e gioioso gioco di sguardi tra Giuseppe e il Bambino contrapposto al volto pensieroso della Madonna (“Maria serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” Luca 2,19).
Analizzando però ogni singolo particolare ci si accorge della ricchezza di significati che ha questo quadro.
Spettatore privilegiato è l’asino dipinto in secondo piano, che osserva attentamente la scena quasi a rappresentare l’umanità che assiste a quanto sta accadendo.
La palma citata nel Vangelo apocrifo dello pseudo Matteo, che con la sua ombra e i suoi frutti aveva offerto ristoro ai tre, viene qui sostituita da un albero di ciliegie.
La coppetta con l’acqua che Maria riempie alla sorgente miracolosa annuncia il Battesimo nel Giordano. Il cuscino regale su cui siede Gesù e l’asino dietro di lui annunciano l’ingresso trionfale a Gerusalemme.
Giuseppe indossa un mantello rosso, come rossi sono i frutti che sta porgendo al Bambino, colore che richiama indubbiamente alla Passione e al sangue versato sulla croce.
Ai piedi della Madonna si intravedono anche una bisaccia da cui esce un pane e accanto un fiaschetto di vino, simboli che rimandano all’Eucaristia.
Anche la camicetta bianca che indossa il Bambino secondo alcuni storici dell’arte avrebbe un significato simbolico, richiamerebbe infatti al telo sindonico del sepolcro.
Gesù accetta i frutti (la Passione) con il braccio coperto dal lino, con l’altro braccio scoperto (la Risurrezione) offre altri frutti a noi attraverso Maria che è madre sua e nostra, lasciandoci in dono il Battesimo e l’Eucaristia per la nostra salvezza.
Possiamo dire quindi che questa immagine riassume la vita e la missione del Redentore, di quel Bambino che si affida totalmente alla volontà del Padre e lo fa con un dolcissimo sorriso.
Autore ignoto - fine XIX / inizio XX sec. - dipinto strappato e riportato su tela
Basilica di San Martino in Magenta
La questione del concepimento di Maria senza peccato è stata, a partire dal XV secolo, tema di dibattito all’interno della Chiesa. Soltanto l’8 dicembre 1854 papa Pio IX ha proclamato il dogma dell’Immacolata Concezione. Nel campo dell’arte la sua rappresentazione è giunta gradualmente a proporre una serie di norme iconografiche e devozionali (nei colori e nella struttura dell’immagine) che prendono spunto dal capitolo 12 dell’Apocalisse. Giovanni descrive infatti una “Donna rivestita dal sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle”. Le dodici stelle sono segno del ruolo privilegiato che Maria ha nella Chiesa e per la Chiesa. La luna è simbolo di castità ed è illuminata dal sole, così come Maria è illuminata da Cristo. Maria è quindi Madre del Verbo e della Luce che illumina la via di tutti i cristiani. Altra figura simbolica è il serpente, spesso rappresentato con una mela in bocca, chiaro riferimento al peccato originale. Maria, intesa come la “nuova Eva”, calpesta la testa del serpente in segno inequivocabile di vittoria del bene sul male, dell’Immacolata Concezione sul peccato originale. Anche il quadro che da qualche anno vediamo appeso in basilica presso la cappella della Madonna si rifà a questa iconografia. Originariamente si trovava nella chiesa di San Rocco ed era un dipinto realizzato sulla parete centrale dell’abside. La tecnica utilizzata fu quella del “mezzo fresco”, dipinto cioè con i pigmenti stemperati nel latte di calce e applicati sull’intonaco asciutto. La raffigurazione è in stile ottocentesco e potrebbe essere stata realizzata alla fine del XIX secolo o, più probabilmente, nei primi decenni del XX secolo. Durante gli ingenti lavori di restauro del 1977-78, resi necessari per adeguare la chiesa alle disposizioni post conciliari, si decise anche di riportare l’edificio alle originarie linee architettoniche essenziali. Si procedette così a ricoprire o eliminare gran parte delle decorazioni che erano state aggiunte negli anni più recenti. Fortunatamente fu deciso di salvare questa Madonna. L’immagine venne “strappata” dalla parete, applicata su tela di lino e intelaiata. Questa saggia decisione ci permette ancora oggi di ammirare l’opera.
Filippo Giussani - 1869 - Tessuto ricamato e tinteggiato
Basilica di San Martino
Da anni, in occasione della festa patronale di san Martino, viene esposto su uno dei pulpiti della basilica uno stendardo. È il modo per rivalutare questo prezioso manufatto che da decenni era riposto nel solaio. Negli anni si è cercato di ricostruire la sua origine. Siamo partiti dal tentativo di decifrare le grandi lettere ricamate con filo dorato e dal capire come mai, sul lato che non viene esposto, sono presenti altri preziosi ricami e l’immagine di due santi che, una volta identificati, ci sembrava strano vedere raffigurati insieme. Fortunatamente nel nostro archivio parrocchiale abbiamo ritrovato un fascicolo che ci racconta compiutamente la storia dello stendardo, permettendoci di apprezzarlo in tutta la sua bellezza. Nel 1869 i coniugi Fornaroli Giuseppe fu Paolo Gaspare e Teresa De Lijon Monti commissionano e quindi donano uno stendardo alla chiesa di S. Martino in Magenta (la vecchia prepositurale), nella persona dell’allora preposto parroco don Carlo Giardini. I committenti, aiutati dal coadiutore della parrocchia don Germano Fornaroli, dettano minuziosamente alla ditta Giussani di Milano i soggetti da rappresentare e i particolari da ricamare. Nella facciata dello stendardo che vediamo solitamente esposta è rappresentato san Martino nel gesto del taglio del mantello, a cui appare la Madonna col Bambino in braccio che porgono il rosario. Ai lati le cifre G.F. (Giuseppe Fornaroli) e T.D.M. (Teresa De Lijon Monti), nella parte bassa lo stemma vescovile e in alto il monogramma della Beata Vergine. Sull’altra facciata sono rappresentati san Giuseppe e santa Teresa d’Avila (in onore dei santi di cui i coniugi portano il nome) in adorazione del Santissimo, posto in un ostensorio ambrosiano.Tutto intorno a fare da cornice un finissimo ricamo con motivi floreali, con inseriti gli stemmi delle famiglie dei donatori. Nell’atto di donazione i committenti precisano il diritto della Confraternita del SS. Sacramento di portare lo stendardo durante le processioni. Dopo più di 150 anni dalla sua realizzazione sarebbe bello trovare l’occasione per renderlo visibile nella sua interezza, così da apprezzarne la preziosità e fare memoria della generosità degli storici benefattori.
Costantino Garavaglia - 1967 - vetro dipinto legato a piombo
Chiesa Madonna del Buon Consiglio in Ponte Nuovo
L’opera, posta a decorazione dell’abside, è composta datre vetrate distinte raffiguranti ognuna 5 dei 15 misteri“tradizionali” del Rosario: GAUDIOSI a sinistra, GLORIOSI al centro e DOLOROSI a destra.I misteri qui rappresentati vengono ricordati durante la recita del Santo Rosario e sono momenti significativi dellavita di Gesù e di Maria.Ricordiamo che la chiesetta, tanto cara a santa Gianna,era di proprietà della Saffa e parte integrante dello stabilimento e del Villaggio abitato da alcune famiglie di operai.Il lavoro di decorazione di tutte le vetrate fu commissionato dai dirigenti Saffa proprio a un loro dipendente, ilboffalorese Costantino Garavaglia.Artista eclettico che, non potendo permettersi gli studi ingioventù, si cimentò da autodidatta in diverse forme d’arte (pittura, scultura, decorazione e fotografia) ottenendonotevoli risultati. Per questo lavoro Costantino lavorò dalprogetto alla realizzazione in completa autonomia, addirittura si costruì il forno per la cottura dei vetri colorati eun apparecchio per i profilati in piombo necessariper legare i vetri.La realizzazione iniziònel 1963, anno in cuiterminò il papato di Giovanni XXIII. Nella partesuperiore della vetratacentrale è rappresentata l’incoronazione diMaria e, tra gli Angelifestanti, Garavaglia havoluto omaggiare questoPontefice raffigurandoloinginocchiato in adorazione.L’intera opera lovide impegnato perben cinque anni alternandola al lavoroin fabbrica e si concluse nel 1967, annodel suo pensionamento.
Autore ignoto - sec. XVII - olio su tela
chiesa di San Rocco in Magenta
Con il nome “San Domenico Soriano” si definisce un particolare soggetto iconografico in cui sono raffigurati la Vergine Maria, Santa Maria Maddalena e Santa Caterina d’Alessandria nell’atto di donare una tela raffigurante San Domenico di Guzmán. La tradizione vuole che nella notte del 15 settembre 1530 le tre donne apparvero a fra Lorenzo da Grotteria nella chiesa dei Domenicani a Soriano Calabro, consegnandogli la tela perché fosse esposta al culto. La preziosa immagine “acheropita” (non realizzata da mano umana), ancora oggi venerata nel santuario in provincia di Vibo Valentia, rappresenta san Domenico, fondatore dell’Ordine, con in una mano un libro, simbolo della sapienza dei membri dell’Ordine e un giglio, simbolo della loro purezza. Gli eventi del 1530 furono sottoposti a processo canonico nel 1609 e successivamente Papa Urbano VIII ne autorizzò la festa liturgica. La devozione di questa immagine si diffuse in Italia, in Europa e in tutto il mondo e furono molti gli artisti che rappresentarono la scena del miracolo. Il quadro presente nella nostra chiesa (finora catalogato semplicemente come Madonna con immagine di S. Domenico) quasi sicuramente si rifà a quell’episodio. Il fatto che le altre due Sante non siano rappresentate potrebbe dipendere dal fatto che la tela, durante uno dei precedenti restauri, sia stata ridimensionata perché fortemente danneggiata ai lati, oppure poteva far parte di un polittico e le altre tele sono andate perdute. Resta da capire che legame avesse Magenta con l’Ordine dei Domenicani e come sia arrivato fin qui il culto della “visione di Soriano”
Seconda metà del XIX sec. - Affresco
cortile privato - via S. Teresa 4, Magenta
L
Il 19 settembre 1846 la Madonna appare a due pastorelli, Maximin e Mélanie, sulle falde di una montagna in una zona detta La Salette nella Francia sud-orientale. La Madonna piange per le sorti dell’umanità e ordina ai pastorelli di diffondere a tutti il suo messaggio. La Chiesa riconoscerà definitivamente l’apparizione nel 1851 e da allora La Salette diventerà meta di migliaia di pellegrini. In uno dei cortili più antichi di Magenta, ancora oggi esistente e conosciuto dai magentini con il nome di “Stalàsc”, su di una parete esterna è affrescata l’immagine di Nostra Signora di La Salette proprio come venne raffigurata nelle immagini votive ottocentesche.
La Madonna è rappresentata con un lungo abito, il caratteristico copricapo ornato di rose e un vistoso crocifisso al collo. Alle sue spalle è visibile un grande bagliore e di fianco i due pastorelli in contemplazione mentre i loro animali pascolano. Non siamo in possesso di documenti che possano certificare con esattezza l’autore. La famiglia proprietaria dello stabile sul quale insiste il dipinto però tramanda di generazione in generazione la storia di un soldato francese che, scampato al massacro durante la Battaglia di Magenta del 4 giugno 1859, realizza l’affresco in segno di ringraziamento alla Madonna di La Salette. L’episodio del soldato francese non fa che confermare l’utilizzo dei cortili magentini, subito dopo la battaglia, come “ospedali da campo”, situazione riportata in diverse ricostruzioni della battaglia stessa. Oltre che come ex voto, il dipinto potrebbe quindi essere stato realizzato dall’autore come segno di ringraziamento per gli abitanti del cortile che gli avevano prestato assistenza. Con questo dipinto rimane visibile ancora oggi la testimonianza di una devozione popolare che interpella anche noi e ci impegna a salvaguardarla e tramandarla.
Seconda metà del XIX sec. - Statua in gesso policromo
Cappella del Refettorio di Comunità “Don Giuseppe Locatelli” in Magenta
La statua della Vergine che vediamo qui riprodotta, per più di cento anni ha guardato migliaia di bambini e ragazzi nel momento della loro crescita non solo religiosa. Si trovava allora presso la chiesetta dell’Oratorio Maschile di Magenta dove ora c’è il Cinemateatro Nuovo. Quando si decise la ricostruzione dell’Oratorio (primi anni’80), con annessa nuova Cappella, la statua venne messa in un ripostiglio fino al 1989 quando trovò sistemazione presso il Centro Rionale San Francesco e Santa Chiara appena costruito (divenuto sede del Refettorio nel 2016). Oggi la Vergine rivolge il suo sguardo benevolo su una delle attività caritative più significative presenti in città, “Non di Solo Pane”. La statua della Madonna si sente naturalmente a casa sua, in un posto dove la condivisione dei bisogni primari delle persone viene praticata quotidianamente, ma guardandola bene, alle volte, sembra di notare nei suoi occhi una certa nostalgia per quel brusio di ragazzi che non smette neanche in chiesa.
Mario Bogani - 1973 Affresco
chiesa dei Santi Giovanni Battista e Gerolamo Emiliani in Magenta
La chiesa, iniziata a costruire nel 1963 e consacrata nel 1980, è giunta gradualmente all’attuale conformazione per quanto riguarda le decorazioni e gli arredi. La decorazione del grande pannello che domina l’abside fu commissionata all’inizio degli anni ‘70 al pittore Mario Bogani (1932-2016). L’artista comasco nel corso della sua carriera ha realizzato più di 200 opere monumentali come questa e numerosi quadri (quattro conservati nella nostra chiesa). I suoi lavori, dallo stile inconfondibile, si trovano in diverse città d’Italia e all’estero e la sua è stata definita “una vita artistica alla ricerca del volto di Cristo”. Anche entrando nella nostra chiesa si viene subito accolti dallo sguardo di Gesù che guarda proprio noi. L’opera, apparentemente semplice, è ricca di particolari significativi. Al tavolo siedono i due discepoli che osservano increduli quanto sta accadendo e il posto davanti a Gesù è libero. Solitamente, nelle opere che narrano questo episodio, Gesù viene rappresentato nell’atto di benedire o spezzare il pane. Qui il pane è già stato spezzato e Gesù lo sta offrendo anche a noi. Nella parte bassa della scena è ripreso il motivo della pavimentazione della chiesa. Quest’ultimo particolare è un chiaro invito dell’artista a proseguire il nostro cammino, sederci a quel posto libero e a riconoscere in quel pane spezzato Cristo Risorto.
Architetto Lorenzo Muzio - inizio anni Sessanta XX sec
Chiesa di S. Giuseppe Lavoratore Pontenuovo di Magenta
La chiesa di San Giuseppe Lavoratore di Ponte Nuovo venne consacrata il 1° Maggio 1963 dall’allora Card. Montini, Arcivescovo di Milano, che solo un mese dopo venne eletto Pontefice col nome di Paolo VI. La consacrazione della chiesa andava a concludere un progetto iniziato negli anni ‘50 dalla società SAFFA e curato dagli architetti milanesi Giovanni Muzio e Lorenzo suo figlio. Proprio a quest’ultimo venne affidata la progettazione della chiesa che risente comunque dell’influenza del padre. Giovanni Muzio, uno dei massimi esponenti del movimento artistico Novecento, a Milano progettò opere che segneranno profondamente la città (Ca’ Brütta, Palazzo dell’Arte, la sede dell’Università Cattolica, Torre Turati…). Il progetto di Ponte Nuovo, comunemente conosciuto come “Villaggio Saffa”, prevedeva la costruzione di alloggi per i dipendenti, un asilo nido, una scuola materna, una scuola elementare, una scuola professionale, impianti sportivi, un cinema-teatro, negozi e naturalmente una chiesa con tanto di canonica. In questo contesto visse anche la famiglia di Santa Gianna Beretta Molla, in quanto la casa sponsale era parte integrante dello stabilimento. L’intento era di offrire ai dipendenti la possibilità di vivere la vita in tutte le sue dimensioni a un passo dal posto di lavoro. Inutile dire che questa onnipresenza della Saffa, in alcune circostanze venne vissuta come un po’ troppo invadente. Entrare oggi in questa chiesa, conoscendone l’origine, è come rimettersi nel solco di una storia che ancora continua. Non possiamo non essere grati alle numerose pubblicazioni realizzate da Ermanno Tunesi che ci hanno raccontato la storia della Saffa e di Ponte Nuovo, la stessa gratitudine va al Comitato per Pontenuovo che ci richiama non solo all’esercizio della memoria, ma a una responsabilità quotidiana.
Giovanni Maria Arduino e Antonio da Lugano - sec. XVII olio su tela - chiesa di San Biagio in Magenta
La tradizione popolare, raccolta dai diversi delegati alle visite pastorali, già nel 1567 dichiara che a Magenta è antichissima e molto sentita la devozione a S. Biagio, anche se lo stato della chiesetta è indecente, tanto da non permettere la celebrazione della Messa. La situazione di degrado rimarr tale fino al 1634, quando Monsignor Faustino Mazenta, a spese sue, ristrutturerà interamente la chiesa dotandola anche della quadreria che possiamo ammirare ancora oggi. Tra queste opere fanno parte anche le due grandi tele, presenti all’ingresso. Monsignor Faustino Mazenta instituir nel 1637 una cappellania per la celebrazione di Messe presso l’Oratorio di S. Biagio dotandola di alcuni beni immobili posti nel territorio di Magenta. Nel 1884, quando le Madri Canossiane apriranno una loro casa a Magenta, grazie a un legato dei Marchesi Mazenta, ingloberanno la chiesa di S. Biagio nel loro istituto, custodendo cos questo tesoro e permettendo, ancora oggi, di mantenere l’antica tradizione della “benedizione della gola” nel giorno della festa del Santo il 3 febbraio di ogni anno.
Autore ignoto vicino ad A. Lanzani - sec. XVII/XVIII - olio su tela. Basilica di San Martino in Magenta
Il quadro che oggi vediamo esposto in Basilica presso l’altare della Madonna, in origine si trovava presso la vecchia San Martino. Dalla descrizione di Mons. Corradi nel 1706: “…al di sopra dell’apertura una seconda cornice di marmo nero con un dipinto nel quale si rappresenta il Santissimo Sacramento fatto scendere dal Cielo dagli Angeli, la Madonna, San Giuseppe, S. Simone Apostolo, S. Antonio Abate…”. Il dipinto nel 1706 si trovava sull’altare della Confraternita del Santissimo Sacramento, altare che all’arrivo a Magenta del corpo di S. Crescenzia nel 1817 venne trasformato nel Santuario della Santa Martire. Curioso l’abbinamento dei due santi presenti nel quadro: S. Simone Apostolo raffigurato con una sega da legnaiolo, oggetto con cui fu martirizzato e S. Antonio Abate. A Magenta la devozione a S. Antonio Abate sempre stata molto viva, tanto che nella visita pastorale eseguita da Padre Leonetto Chiavone nel 1567 viene censita una chiesa dedicata a S. Antonio Abate, fornita di due altari presso i quali si celebrava Messa una volta alla settimana grazie al patronato della famiglia Pietrasanta. I documenti in nostro possesso non ci permettono di individuare l’ubicazione di questo Oratorio che venne demolito nel secolo XVII.
Autore ignoto - già presente nel XVIII sec. - legno policromo
Chiesa di San Rocco in Magenta
Presso l’archivio parrocchiale della basilica di San Martino è conservato un libro del “Sodalizio della Dottrina Cristiana”, al suo interno viene citato questo Crocifisso e ne viene descritto l’utilizzo.
Dalla relazione del 1931: “… I funerali e le processioni si aprono col Crocifisso del Sodalizio (il popolo lo chiama il Crocifisso della Scuola). Nei funerali la croce è nera col velo di lutto.
Crocifere o Cantatrici: per antichissima usanza un gruppo di donne scelte nel Sodalizio della Dottrina Cristiana hanno l’incarico di stare attorno al Crocifisso della Scuola e nei funerali cantano il Misere, nelle processioni cantano il Pange Lingua e gli inni Eucaristici…”.
Didascalie Foto:
Anonimo lombardo – inizio XVI sec. – tempera magra su tela
Santuario Santa Maria Assunta in Magenta
La tela è inserita nell'ancona cinquecentesca presente all'Assunta, nella cappella di San Giuseppe (attualmente la terza a sinistra dell'entrata), fin dai tempi dei Celestini.
Il pregevole restauro del 1996 dell'intera opera, a cura del prof. Lo Sardo, ci permette ancora oggi di ammirarne la bellezza.
Pur essendo denominata -Natività- basta guardarla con attenzione per capire che il vero protagonista del quadro è proprio Giuseppe (qui insolitamente giovane), che non viene rappresentato statico e in secondo piano come spesso accade ma in primo piano e parte attiva della scena.
Come ben spiegato dal prof. Cislaghi nel libro -Ritorna alla luce il Bergognone- : ...la tematica natalizia...ovviamente è la principale. Ma bisogna però leggerne bene i particolari, i quali...interpretano filologicamente il Vangelo secondo Matteo: è Giuseppe, della discendenza di Davide, giovane sposo di Maria, infatti, che, dopo aver accolto costei in casa propria, ne accoglie ora il figlio, dandogli il nome.
Il Bambino, con l'indice della mano destra, indica proprio lui e Giuseppe è rappresentato come se lo stesse per ricevere in braccio, con il palmo della mano destra rivolto verso l'alto sinonimo di "accettazione".
Curioso è il fatto che questo quadro fa parte di una serie di tele e tavole molto simili tra loro come epoca, impostazione scenica e particolari: la struttura della capanna, la posizione dei personaggi, la presenza dell'asino e del bue vicino al Bambino, la greppia/mangiatoia di forma ellittica fatta di rami intrecciati.
Per ognuna di queste opere sono state fatte negli anni diverse ipotesi di attribuzione, senza mai arrivare con certezza agli autori.
Altra curiosità riguarda proprio le mani di Giuseppe in queste rappresentazioni.
Alcuni storici hanno notato la somiglianza di queste con le mani di Matteo così come sono rappresentate nel Cenacolo Vinciano.
Leonardo era sicuramente uno degli artisti tra i più osservati e studiati dai suoi contemporanei.
Possiamo quindi ipotizzare, avvalorando la tesi di prima, che l'autore del quadro abbia voluto dirci: così come sta scritto "per mano" di Matteo, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore.
L’altare del Santissimo Rosario, ora al Santuario della Beata Vergine Assunta, era uno dei più importanti nella vecchia San Martino (era collocato nella seconda cappella a destra scendendo da quell’Altare Maggiore).Come lo vediamo oggi, così era nel 1706, appena costruito, in una descrizione del Corradi di quell’anno. Questo altare era di patronato dei Beretta diContrada San Martino di Magenta dal 1687(…). Il patronato sulla Cappella del Rosario comportava anche la “manutenzione”: ciò significa che, quando la Cappella del Rosario fu rifatta attorno al 1706 e ai primi dell’Ottocento, lo fu a opera dei Beretta di Contrada San Martino.Tuttavia la statua della Madonna che si vede in fotografia non è quella originale, dei primi del Settecento, ma quella fatta fare da DonCesare Tragella, nel 1908, per la sua Cappella della Madonna del Soccorso, presso il suo Ricovero degli anziani di via Novara.Quella originale, bellissima e in legno, è andata “dispersa” (…)(Ambrogio Cislaghi, “Santa Gianna Beretta Molla dei Beretta di Magenta”, pag. 71)
Miei cari,
è un vero peccato che da molti anni il nostro Santuario dell’Assunta sia chiuso in attesa di restauro. Iniziati finalmente i lavori, speriamo che possano concludersi davvero presto.
È un peccato, perché non si può entrare in questa nostra chiesa a pregare, a incontrare Maria e nel medesimo tempo essere un po’ presi da una piacevolissima distrazione:
le bellezze artistiche lì racchiuse. Quella dell’Assunta è una testimonianza particolarmente interessante, che ci raggiunge dal XIV secolo.
È il patrimonio che ci hanno lasciato i nostri padri, i quali, pur vivendo in abitazioni povere e spoglie, hanno però voluto offrire una casa bella e preziosa a Gesù e alla sua santissima Madre. Tuttavia, non è solo qui che si possono trovare cose interessanti e significative da considerare con attenzione: tutte le nostre chiese, antiche e moderne, ne contengono, basta accorgersene.
È quanto da tempo accade a Carlo Morani e Massimiliano Magistrelli, dotati, non solo di un grande spirito di osservazione, ma di una certa passione per le cose belle, per l’arte e per la storia, anche quella che riguarda da vicino le vicende della nostra comunità magentina. Entusiasmati dall’esito delle loro indagini, i nostri due amici mi hanno proposto di condividere il lavoro fatto, mettendolo a disposizione di tutti. L’idea è che, periodicamente, venga pubblicata su Insieme la foto di un tesoro del patrimonio storico-artistico magentino da riscoprire o da conoscere.
Accolgo volentieri la loro iniziativa e li ringrazio di cuore. Penso ai secoli in cui le opere artistiche delle chiese costituivano la Bibbia dei poveri, a quando si raccontavano i misteri della vita di Cristo, della storia sacra e dei santi con le immagini. Rifletto sulle parole di Dostoevskij - «l’umanità per vivere non ha bisogno né di scienza né di pane, ma soltanto la bellezza le è indispensabile, perché senza bellezza non ci sarà più niente da fare in questo mondo!», o - se vogliamo una citazione meno risaputa - del poeta francese Christian Bobin: «Qualcosa prima della sua venuta (di Cristo, ndr) lo intuisce. Qualcosa dopo la sua venuta si ricorda di lui. Questo qualcosa è la bellezza sulla terra».
Miei cari, l’uomo ha bisogno della Verità e della Bontà per vivere e su questo tutti concordano; ma l’uomo che è sempre alla ricerca ha bisogno anche della Bellezza, ed è questa che “salverà il mondo” (Dostoevskij).
don Giuseppe
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